di Celestino Tabasso
Calasetta. Si entra nel chiaro del Macc, le opere alle pareti bianche, la temperatura da tardo gennaio, e si sente spiegare che «l’importante è non fare del museo un congelatore».
Se poi si fa caso alle pareti che qui e lì hanno una traccia di vernice, un’impronta del lavoro trascorso, ma il battiscopa è dipinto un imprevedibile e scintillante oro zecchino, allora l’effetto complessivo è raggiunto: al museo di arte contemporanea di Calasetta regna una certa arietta di sovversione. Il che, per un luogo di elaborazione culturale, è sempre un piccolo trionfo. Ma il successo principale, probabilmente, sta nella riuscita del programma di “residenze” lanciato dal direttore artistico del museo Stefano Rabolli Pansera. In sostanza: un territorio o un’istituzione invita per un periodo non breve un artista, uno scrittore, un compositore o un creativo di qualunque altra tribù, in modo che tragga ispirazione dall’ambiente e ricambi in termini artistici l’ospitalità, diffondendo un’immagine, un suono, un concetto di quella zona. Lo fanno da tempo i Paesi scandinavi con la letteratura, ad esempio, e i giovani scrittori sardi lo sanno bene, e lo fanno i musei corsi, oltre che i nostri. Lo fa anche il Macc, il museo calasettano sostenuto amministrativamente dal Comune e dalla Conservatoria delle coste e artisticamente dalla Raccolta lasciata in eredità da Ermanno Leinardi, genius loci pittorico. Le opere da lui amate e acquistate nella sua lunga carriera di artista curioso e appassionato sono state esposte in modo da dialogare con le creazioni realizzate dai giovani residenti negli ultimi due mesi, durante i quali hanno avuto Calasetta come casa e il Macc come atelier.
Venerdì pomeriggio le opere della Raccolta e quelle “residenziali” hanno debuttato nella mostra che sarà visitabile ogni fine settimana (il sabato dalle 17 alle 20, la domenica dalle 10 alle 13) per due mesi, fino al 17 marzo.
I giovani protagonisti di questo progetto sono Simon Mathers, Damian Griffiths e Marco Lampis, due inglesi e un sardo, e nelle scorse settimane hanno lavorato, scolpito, sperimentato e dipinto nei saloni del Macc (da qui gli schizzi di vernice, a testimonianza che il museo appunto non è un freezer dove conservare arte ma un luogo attivo). A firmare l’allestimento delle loro opere è Karina Joseph: è stata lei a decidere che il visitatore – oltre che dal sontuoso e sarcastico battiscopa aureo – sarebbe stato accolto dalla gigantografia di un discobolo tormentosamente attratto dall’idea di impalarsi, o dai cartoni decorati con le impronte dei piedi d’artista. Sono tutte e tre opere di Damian Griffiths, a pochi passi dall’ambiente dove Marco Lampis ha allestito il suo padiglione. Letteralmente, padiglione, nel senso che su un tavolo di cristallo – il desk del progettista, il lettino operatorio, il tavolone dell’alchimista: decida ciascuno – stanno staffe, membrane, martelletti, componenti in metallo e paraffina cerea di un orecchio immaginario, smontabile, trascendente.
Gli fanno da vicini di casa le opere di Mathers, le sue scorribande fra lini, legni di recupero, vernici e caseina. Fino al rettangolo di tela dipinto da una mestolata di olio d’oliva extravergine. Un irreprensibile “olio su tela”.